“Credo nelle persone buone e nelle cose che so fare. E credo che tu sia la più buona che conosco e più brava di me a fare praticamente tutto. Per questo ho fatto quello che ho fatto e mi sono precipitato qui. Perché penso, anzi, perché sono sicuro, che dovremmo farlo. Sono sicuro che dovresti infilarti questo anello e dire sì davanti al primo prete che incontriamo o al sindaco, perché so dove abita e non sarebbe un problema. Solo sì. Sono sicuro che dovresti fare quest’unica, semplice cosa. Perché ne ho bisogno, perché ti amo. E perché sapresti farla benissimo.”
Erano seduti su una delle panchine verde scrostato di quel parco vicino al fiume. Una vecchia panchina di legno, tipicamente incisa di amori adolescenziali e inni alla squadra del cuore. Lei guardava in basso, forse osservava l’astuccio dell’anello, che tremava visibilmente nonostante lui facesse di tutto per tenere la mano immobile, o forse no, forse aveva solo lo sguardo perso nel verde della panchina. La natura intorno profumava abbondantemente di legno, resina e fiori, e cinguettava, tubava, ronzava e li avvolgeva con sfumature di verdi e di gialli, di rossi e di lilla, di luci e di ombre. Eppure Marco non percepiva altro che il profumo dolce di lei, riusciva a vedere solo la sua canottiera azzurra intorno al profilo del seno, la gonna di cotone beige che le avvolgeva le gambe abbronzate e riusciva ad ascoltare solo quell’inaccettabile, inatteso, silenzio. Avvertì una fitta allo stomaco. La nuca si irrigidì e un brivido gli percorse la schiena, nonostante il caldo afoso di quel pomeriggio inoltrato di fine estate. Sonia spostò impercettibilmente lo sguardo di fronte a sé. Ma gli aveva proprio detto che era buona? Una cosa carina, dopotutto. E aveva anche detto che lei sapeva fare praticamente tutto? Ed era vero o era solo lui che la vedeva così? E infine le aveva chiesto davvero di sposarlo? Aveva tirato fuori l’astuccio, l’aveva aperto, ponendo una cura esasperata nei movimenti e aveva cominciato a parlare. Il modo in cui le aveva detto quelle cose a lei era sembrato strano. Non avrebbe saputo dire esattamente perché, ma le erano sembrate parole scritte, piuttosto che dette. Lui era stato bravo, sicuro di sé, aveva fatto le pause giuste, aveva recitato la battuta come avrebbe fatto un attore consumato. Le aveva fatto venire in mente sua madre, ciò che le ripeteva continuamente. Anche se arriveranno inevitabilmente i fallimenti, tu non perdere mai la speranza. Devi crederci. C’è una e una sola persona che potrai amare davvero e che saprà ricambiarti in egual misura. Una sola. E’ là fuori da qualche parte e se ci credi, finirai per incontrarla. Non accontentarti mai, figlia mia. Non arrenderti. E poi lui aveva detto ti amo, proprio così, e in quel momento lei aveva sollevato lo sguardo. Marco si era spettato uno di quegli ampi sorrisi di cui lei era capace, pensava che lo avrebbe guardato dritto negli occhi e che avrebbe fatto la sua parte, senza indugi. Immaginava che lo avrebbe baciato, gettandogli le braccia al collo. Invece lei aveva solo spostato impercettibilmente lo sguardo di fronte a sé. Ma dio santo! Che cosa fa? Marco aveva ripetuto quelle parole centinaia di volte. Le aveva ascoltate, aveva provato le pause, ne aveva assaporato il suono e aveva deciso che erano giuste, precise. E adesso era pietrificato, non aveva niente da aggiungere, qualsiasi cosa, anche solo un sospiro, avrebbe incrinato la perfezione che si era immaginato. Toccava a lei parlare e lui poteva solo aspettare. Ma perché non diceva nulla? Meglio dire subito di no. Forse era stato precipitoso. Lei, però, avrebbe potuto semplicemente dire che sarebbe stato meglio aspettare e lui avrebbe capito, avrebbe deglutito con naturalezza e se ne sarebbe fatto una ragione. Oppure non lo amava abbastanza? O forse non lo amava più? No, a questo non poteva credere, non voleva credere. Ma cosa guardava poi con tanta attenzione? Cosa c’era di più importante di quello. Le due donne che arrivavano di corsa forse? Marcò guardò nella stessa direzione. Una figura stretta e lunga, esibiva una corsa perfetta, precisa, si sollevava da terra con balzi regolari, come se disegnasse, con i passi, una leggera onda sonora. L’altra, tonda e larga, sembrava invece rotolare, strisciare, i piedi avvolti in una nube di polvere, pareva non riuscisse a staccarsi dalla strada sterrata. A Marco vennero in mente le comiche di Laurel & Hardy e sorrise per un istante. Ora erano abbastanza vicine. Una era davvero molto bella. Alta, austera, i muscoli delle cosce che si tendevano a ogni passo sotto la pelle bianca, i capelli biondi lucidi, tirati indietro e legati in una breve coda sulla nuca, la fronte liscia, il naso piccolo e dritto, le guance velate di un rosa pallido, le labbra purpuree, socchiuse, che lasciavano intravedere una sottile linea di denti candidi. L’altra invece, senza dubbio oltre il quintale, aveva il viso deturpato dallo sforzo e gli occhi segnati da profonde occhiaie viola. Marco indugiò sulle cosce e sui fianchi traballanti come panna cotta. Poi salì su fino al seno enorme che le rimbalzava ad ogni passo tra il mento e il ventre adiposo. Notò le guance rosso scuro, la bocca spalancata, la lingua appoggiata sul labbro inferiore. Sentì addirittura il suo respiro affannoso, quasi un rantolo che avvolgeva il silenzio perfetto della corsa dell’altra. Per un attimo ne incrociò lo sguardo affaticato e quegli occhi piccoli, schiacciati dalle guance ingombranti, annegati in un sudore eccessivo, gli parvero occhi conosciuti. Cercò di ripescarli dal suo passato, elementari, medie, liceo, università, ma niente. Per educazione stava quasi per alzare una mano in segno di saluto, ma poi si ricordò perché era là, si ricordò delle parole che aveva appena pronunciato e il cuore saltò un battito, quando realizzò che lei non aveva ancora risposto. Da dietro, lo spettacolo delle due donne che si allontanavano rapidamente, era ancora più surreale. Da una parte muscoli quasi immobili che si contraevano ritmicamente con elegante tensione, avvolti in un pantaloncino blu attillato. Dall’altra debordo adiposo che neppure la tuta fucsia elasticizzata riusciva a contenere, come quando ti versi un bicchiere di birra troppo in fretta e la schiuma densa bianca monta e trabocca inevitabilmente. Che bella quella biondina! Però guardare un’altra così proprio in questo momento. Sonia abbassò nuovamente lo sguardo. Fin’ora non aveva avuto il coraggio di guardare esplicitamente l’astuccio con l’anello. Con la coda dell’occhio notò che la mano di lui tremava leggermente, allora tornò a cercare con lo sguardo la scritta incisa tanti anni fa. Il primo fidanzatino, com’è che si chiamava? Ah, eccola! Mau e Sonia. Il piccolo Maurizio aveva un sorriso così divertente, con quei suoi incisivi enormi da coniglio. Quanti anni erano passati? Venticinque? Forse di più. E guarda un po’, i loro nomi erano ancora là, chiusi nel perimetro asimmetrico e tremolante di un cuore, attraversato da un’improbabile freccia. Fossile affidato alle generazioni future, almeno finché la panchina sarebbe rimasta là. Ma non era certo il momento per il viale dei ricordi. Non era certo il momento di divagare. Lui aspettava. Sulle panchine intorno alcune mamme con carrozzina parcheggiata a fianco, chiacchieravano amabilmente, mentre con un mano cullavano il bebè dormiente. C’erano ragazzi e ragazze alle prese con un libro, oppure con un settimanale. E più in là due anziani. Uno parlava in modo concitato, guardando dritto davanti a sé come se si rivolgesse a un interlocutore inesistente. L’altro si limitava ad annuire, mentre sbriciolava un panino sopra le teste di volatili ammassati ai suoi piedi. E c’erano i fanatici del jogging. Piccoli piccoli si avvicinavano fino a raggiungere scala 1:1, ma solo per un attimo, poi proseguivano, tornando a rimpicciolirsi fino a sparire. E c’erano i bambini. I più grandi correvano, gridavano come ossessi, calciavano palle, si contendevano i giochi, si spintonavano irrequieti, piangevano. Quelli prescolari invece, precariamente deambulanti, vacillavano coraggiosamente sulle gambette inesperte. Sembrava dovessero ruzzolare a terra da un momento all’altro e invece, come sostenuti da fili invisibili, procedevano miracolosamente, un piede davanti all’altro, dichiarando guerra a questo o quell’insetto. Il mondo procedeva come sempre. Il parco offriva il solito spettacolo, nessuno badava a loro, nessuno poteva immaginare l’importanza di quel momento. Finalmente Sonia si decise a guardare Marco dritto negli occhi. Aveva aspettato troppo? Ma no, dopotutto lui aveva appena detto quella cosa così strana, cioè che lei lo avrebbe saputo fare benissimo. Era passato solo qualche istante, il tempo necessario per assorbire le sue parole. Sonia sorrise e sentì i capelli scivolarle davanti a un occhio e solleticarle la guancia. Marco avrebbe voluto gridare. Sentiva gli occhi gonfiarsi, un nodo avvilupparsi intorno alla trachea. Socchiuse le labbra e percepì che tra un istante ne sarebbe venuto fuori tutto il suo sgomento, il suo rammarico per aver rovinato tutto, per aver pensato così arbitrariamente, che fosse il momento giusto. Ma è un sorriso quello? Finalmente gli occhi di Sonia. Marco non sapeva se fosse il caso di dire qualcosa, se sarebbe stato meglio prevenire qualsiasi sua obbiezione e sollevarla dall’eventuale imbarazzo. Oppure se fosse stato meglio aspettare ancora un istante. E poi finalmente lei lo fece. Ricacciò dietro l’orecchio, con un gesto elegante, la ciocca di capelli che le era scivolata sul viso. Un raggio di sole, profumato di ciliegio, si posò sul suo sorriso e lei allungò una mano sull’astuccio aperto, che finalmente smise di tremare. E mentre succedevano infinite altre cose, tutt’intorno a loro e un caleidoscopio di colori danzava, e voci e suoni fluivano, come quando sei su una giostra e il mondo gli corre intorno senza posa, lei finalmente, con tutta la semplicità di cui era capace, lo fece.
“Sì”, disse.
E fu perfetto.
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